Hai mai provato a cavalcare in groppa a un mulo? Non credo. Nemmeno io posso vantarmi di averlo fatto, ma sicuramente entrambi conosciamo il detto “usare il bastone e la carota” e il significato comune che ad esso viene attribuito. In ambito lavorativo, con questa espressione si descrive una strategia relazionale nella quale il leader di un gruppo alterna consapevolmente uno stile autoritario e severo ad uno più accondiscendente e premiante.

Carota e bastone sono adatti a motivare un team di lavoro?

A prima vista questo sistema non evidenzia errori grossolani: è scontato che in un gruppo di lavoro si creino situazioni di diversa natura ed è altrettanto plausibile che esse vengano gestite in maniera differenziata, a seconda del tipo di argomento e delle persone coinvolte.

È considerato inoltre normale trattare “con il bastone” un collaboratore che ha commesso errori, o che appare svogliato e demotivato, e sembra sensato premiarlo per un lavoro ben fatto, o relazionarsi in maniera gentile quando le cose vanno lisce.

Il cerchio di questa teoria si potrebbe chiudere con un’ulteriore regola: mai eccedere nella “gentilezza” perché, si sa, in ambito lavorativo è importante mantenere le distanze e concedere gratificazioni con estrema moderazione, per alimentare quella sana e costante tensione che mantiene tutti attivi.

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I limiti di un approccio che prevede solo o la ricompensa o la punizione

Dopo questa ulteriore descrizione, è già più facile intuire come questo tipo di approccio nasconda in realtà qualche limite.

Per capire meglio in cosa consistano questi limiti, dobbiamo comprendere nel dettaglio quali sono le leve che muovono questo metodo: il bastone serve a spronare (il mulo) a continuare il suo cammino, a sopportare la fatica, a non temere salite ripide o discese vertiginose, in sostanza a non pensare e a proseguire senza rallentamenti nella sua strada. La carota, invece, serve a motivarlo una volta giunto a destinazione. In sostanza il premio gli è concesso per aver ascoltato ciecamente il padrone, per non essersi ribellato e per aver assecondato le scelte della sua guida ignorando il proprio istinto.

Proviamo ora a contestualizzare questa stessa dinamica in un rapporto professionale: cosa succederebbe se il nostro stile di leadership spingesse i nostri collaboratori a comportarsi proprio come il mulo dell’esempio, ovvero ad operare costantemente ed esattamente secondo le indicazioni, gli ordini che noi impartiamo, a non considerare le loro sensazioni o i loro limiti (la mancanza di skills o la stanchezza ad esempio), a tralasciare la loro esperienza o il loro giudizio a favore indiscusso del nostro punto di vista?

E cosa succederebbe, inoltre, se la motivazione arrivasse soltanto alla fine di un lavoro svolto bene, o come conseguenza del raggiungimento di un risultato positivo?

Nei panni di leader ci troveremmo continuamente nella posizione di dover indirizzare e spronare i nostri collaboratori, ad indicargli costantemente non solo cosa fare ma anche il modo migliore per farlo (guarda caso, il nostro), a fronteggiare le difficoltà che inevitabilmente incontreremmo e gli errori che altrettanto inevitabilmente potranno essere compiuti, soltanto con l’arma della punizione.

Avremmo un team di lavoro:

  • intimorito dal nostro atteggiamento
  • statico nell’operatività perché letteralmente impaurito dalle conseguenze di un possibile errore
  • inebetito dall’impossibilità di gestire in autonomia il proprio lavoro
  • sconfortato dall’inutilità della propria esperienza personale e professionale, il cui apporto non è richiesto.

Un collaboratore messo in questa situazione non ha alcuno stimolo a condividere il suo punto di vista con il proprio team-leader, anche se è certo che possa essere utile per migliorare la qualità del lavoro o per ottimizzarne o velocizzarne i risultati, perché sarebbe spinto a ridurre il più possibile il suo rischio di errore per minimizzare le punizioni.

Questo clima di lavoro lo indurrebbe a competere con i propri colleghi per ottenere “la carota”, ovvero la premiazione, ma non attraverso un sistema propositivo e stimolante bensì svalorizzante e penalizzante: il premio arriva perché io non ho fatto errori e qualcun altro sì, non perché mi sono distinto per aver portato un reale valore aggiunto. E indovina un po’? Se io vinco perché qualcun altro sbaglia, cosa sono portato a fare per vincere?

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Gestire la leadership con un approccio valorizzante

Nella gestione del nostro stile di leadership è fondamentale considerare un approccio valorizzante, sempre, per portare le persone a godere delle vittorie personali e di gruppo ma anche ad attraversare con determinazione, fiducia e convinzione i momenti di difficoltà.

Ogni errore, ogni criticità evidenziata è un’occasione straordinaria di crescita professionale e personale se gestita in maniera opportuna, ma può diventare uno strumento di intossicazione del gruppo e del singolo se vista soltanto come origine di punizioni e frustrazioni.

È importante costruire un team di lavoro improntato sullo scambio di opinioni e di competenze, sulla condivisione dei limiti e delle difficoltà, per avere maggiori possibilità di miglioramento e quindi di successo.

Il rispetto della figura del leader è una condizione che deve nascere dalla fiducia e dalla stima, e non dal timore di ritorsioni o punizioni. Dare autonomia ai singoli collaboratori, delegare a loro la gestione delle task assegnate, e al contempo aiutarli nel superamento dei loro limiti o nel miglioramento della loro efficienza significa investire in un sistema che si alimenta e progredisce velocemente e autonomamente.

L’impegno che porta all’identificazione di obiettivi comuni, all’accrescimento delle identità personali e di gruppo, la celebrazione dei successi e la gestione condivisa delle difficoltà è il miglior modo per creare team di lavoro coesi e proattivi, orientati al raggiungimento di risultati e al miglioramento delle performance attraverso la costruzione di un ambiente di lavoro positivo e con alti standard qualitativi.

A questo punto sembra chiaro come il metodo “bastone e carota” risulti obsoleto e anacronistico, espressione del perfetto stile di non-leadership.

 

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